Dovere
Il concetto di dovere è antichissimo e affonda le sue radici in un tempo ancor precedente di quello del diritto. Esso infatti si lega, oltre che a valori morali quali l’uguaglianza e la libertà, che solo in epoca illuminista vedono la luce nel pensiero politico, anche e soprattutto ai più antichi valori caratteristici dei regimi teocratici dell’antichità. Si nota infatti come il dovere, sin dai tempi più remoti, si sviluppi in rapporto con la divinità, prima che il giusnaturalismo metta in luce il carattere contrattuale dello Stato. Così non è un caso che, in società dove ogni aspetto è relazionato al culto religioso e dove il potere è retto dai ministri sacerdotali, anche il dovere assuma importanza alla luce della conformazione al volere divino: infatti la tragedia greca e la grande oratoria classica spesso richiamano i loro protagonisti a un dovere dettato da istanze religiose. Se ne hanno esempi pratici nelle liturgie dell’antica Grecia, come nel caso che emerge dall’orazione “Per l’olivo sacro” di Lisia: l’accusato non ha adempito al proprio dovere di curare un olivo considerato sacro, dunque è giusto che sia condannato. Ciò che emerge da questa, come da altre vicende di cui è ricca l’antichità, è il legame indissolubile che sussiste tra dovere, giustizia e religione. In uno Stato dominato dal potere degli dèi, anche la società è sottoposta a doveri civili strettamente connessi a doveri morali derivati dalla religione. Anche la filosofia di quell’epoca conferma il valore morale del dovere: Platone riconosce alle tre classi della società tre differenti valori che ciascuno ha il dovere di rispettare. Se dunque è un dovere per i lavoratori essere temperanti, coraggiosi per i guerrieri e giusti per i governanti, il fondamento che giustifica tutto ciò è sempre di carattere morale: ognuno infatti realizza la propria anima (irascibile, concupiscibile o razionale che sia). Anche il Cristianesimo, pur nella sua unicità del messaggio, mantiene questa impostazione, per cui è un dovere il rispetto dell’altro in virtù del fatto che siamo tutti figli di Dio e dunque uguali. Ma già in tempi antichi si scorge una diversa accezione del significato di dovere, quando per esempio si ritiene giusto dover pagare il cosiddetto “theorikòn”, ovvero la tassa che permetteva a tutti, anche ai più poveri, di assistere alle rappresentazioni teatrali. Da ciò emerge la concezione che poi si affermerà nel ‘700 e che apre le porte al dibattito sulla legittimità di certi doveri. Svincolato dal piano religioso, il dovere sembra assumere un valore civile più rilevante, ma al contempo perde il suo diretto fondamento e accende la questione sulla sua origine. Perché è doveroso pagare le tasse, per esempio, per permettere a tutti di assistere al teatro? Su questo tipo di considerazioni si innesta il pensiero giusnaturalista, che segna la svolta nella definizione di diritti e doveri. Se nell’antica Grecia diritti e doveri erano prerogative per pochi (vigeva infatti il principio del trattare ugualmente gli uguali e diversamente i diversi), con la scoperta dei diritti di natura e quindi con la nascita dello Stato come contratto, essi trovano un loro fondamento. La volontà di coloro che hanno firmato il contratto di costituire uno Stato che tutelasse i propri diritti di natura, garantisce ai diritti e ai doveri una solida base, ossi il riconoscimento e l’adeguamento all’identità dell’uomo. Dovere dell’uomo è dunque quello di rispettare, nel proprio agire, tali diritti pre-sociali. Si afferma poi l’idea, secondo una concezione tipicamente liberale, del dovere di salvaguardare la democrazia stessa, unico regime in grado di garantire la libertà: nostro dovere è esprimere la nostra libertà, anche qualora essa vada contro la volontà della maggioranza, strumento del potere democratico. Come sostiene Tocqueville, per non rischiare di incorrere nella cosiddetta “dittatura della maggioranza” è necessario e doveroso, da parte del cittadino, esprimere la propria libertà, come mezzo per garantire l’ordine democratico stesso. Anche se la nostra è l’espressione di una minoranza, noi abbiamo il dovere di esprimerla, attraverso gli strumenti democratici, quale il voto, per non lasciare le decisioni unicamente alla maggioranza, Si innesta su questo concetto di dovere il tema della disobbedienza civile: essa, se attuata in maniera non violenta e civile appunto, può trasformarsi, da atto teoricamente anti-democratico, in vero e proprio strumento di civiltà, dovere del cittadino.
Anche oggi, nonostante secoli di speculazione filosofica, il tema rimane attuale e si evolve nelle forme della modernità. Di fronte al calo degli elettori votanti torna alla mente il dovere di ciascuno nell’espressione della propria opinione, non solo come diritto ma anche e soprattutto come dovere nei confronti del regime democratico. Più difficoltosa è l’analisi dei doveri a cui dovrebbero attendere i governanti. Lontani dall’immagine platonica di simbolo della giustizia, essi hanno assunto nell’immaginario collettivo un significato negativo, probabilmente a buon diritto per quanto si può osservare. Se infatti dovere del cittadino è rispondere alle esigenze cui è chiamato dallo Stato, così maggiormente la figura del governante deve assumere il gravoso dovere di saper fare gli interessi di tutti, di mettersi anch’esso al servizio dello Stato e non al di sopra di esso. Dovere comune infine, che si erge su tutti gli altri particolari, è la spinta verso l’unità, verso la coesione e la fratellanza ( termine che non a caso campeggiava sulle bandiere della Rivoluzione francese), perché ciascuno, non tanto per imposizione, quanto per intimo convincimento, aiuti il progresso della società. È infine interessante quindi soffermarsi sul dovere e l’intima convinzione in esso. Schopenhauer riteneva che compire il bene fosse realizzabile conformandosi all’idea di altruismo che soccorre tutti gli uomini nella loro sofferenza: al di là della sua visione del mondo, anche noi oggi dovremmo cercare dentro di noi quel fondo di umanità che ci accomuna e quindi riuscire a reinterpretare il dovere, per troppo tempo visto solo come imposizione, come invece grande gesto di solidarietà. È inoltre utile conformarci interiormente al dovere anche per realizzare noi stessi, la nostra natura, proprio come il giudice Wilhelm di Kierkegaard, con la sola differenza che, nella soddisfazione di noi stessi, ci sentiremo al contempo liberi.
Questo, dunque, deve essere il grande valore odierno del dovere: simbolo di libertà interiore, esso permette la convivenza democratica tra gli uomini e la continuazione dell’istituzione statale.
Marco Ricci V D Liceo Classico ‘Galileo’ Firenze
Dovere
Le società più antiche erano "società dell'obbligo", in cui la legge dello Stato è presente come entità quasi esclusivamente limitativa, che pone divieti e prescrizioni; poi, a seguito delle pretese sociali, politiche e civili venne nell'età moderna, con le prime costituzioni non concesse, ma ottenute, una civiltà improntata ai sacri e irrevocabili diritti del singolo, mentre nella contemporaneità abbiamo esperienza di una solida struttura di diritti e doveri, una sorta di hegeliana sintesi nella triade della storia della civiltà dell'uomo. L'odierno mondo democratico sembra dunque retto da un ben ponderato intreccio di diritti, che tutelano i cittadini rispetto allo Stato garantendo, in linea di massima, le inderogabili libertà del singolo, e di doveri, che tutelano lo Stato rispetto ai cittadini garantendo l'obbedienza del singolo con prescrizioni in misura più o meno estesa. Ma, dando per appurata la presenza di diritti sufficientemente egualitari nella compagine democratica, per sottrarci ad una faconda e feconda diatriba che vedrebbe contrapporsi tesi presenti in opere come la "Repubblica" di Aristocle, detto Platone, il Leviatano di Hobbes, o lo hegeliano ingresso di Dio nella monarchia prussiana e il comunismo di Marx, mi soffermerò soltanto su quali doveri possano definirsi inequivocabilmente necessari nello Stato democratico.
Lo stesso Socrate, che Erasmo da Rotterdam soleva definire "santo", il padre della filosofia antropologica, condannato dalla democrazia ateniese, sostenne che è di gran lunga preferibile subire un torto che commetterlo, predicando, come testimonia anche Platone, l'inviolabilità assoluta della legge dello Stato, dovere che risulta valido anche alla luce della morale di Kant, per cui è legittimo ogni principio che possa essere universalizzabile, ovvero non dannoso per lo Stato se assunto da ciascun uomo, e così pure appare inviolabile in accordo con il pensiero di Hegel, giacché innanzitutto la disobbedienza danneggerebbe lo Stato che in Hegel è divinizzato, poi perché, assumendo che ciò che è reale è anche razionale, e ogni Stato prescrive l'obbedienza alla legge, una norma di tal genere ne viene certamente più che giustificata. Il dovere di obbedire alle leggi dello Stato non pare però essere contemplato nella sua totalità da chi, come Marx e Bakunin, ha ammesso uno stravolgimento dell'organizzazione statale attraverso la lotta armata, autorizzando di fatto la disobbedienza civile, che peraltro si potrebbe pensare di prendere in considerazione per quei casi in cui essa è stata strumento di contestazione, nel senso di sensibilizzazione, di una particolare realtà, della maggioranza da parte di una minoranza; sulla stessa controversa questione si sono destreggiati gli imputati del processo di Norimberga del 1946, affermando di aver fatto ciò che prescriveva la legge del Reich nazista. La seconda implicazione del precetto di Socrate, l'assoluta astensione dalla violenza, non è stata altrettanto largamente adottata dagli Stati: non si pensi alla sola patria potestà dell'Antica Roma, che dava al patriarca diritto di vita o di morte sui figli, ma anche alla legittima difesa, prevista dalla legge di numerosissimi Stati. Questa prescrizione ha avuto molteplici risvolti nella disobbedienza civile: in particolare, ma non solo, nei casi dei recenti conflitti bellici, anche se ritenuti difensivi. Nondimeno, numerose filosofie hanno contemplato un "dovere di astenersi dalla violenza": celebre è l'esempio della filosofia cristiana, che, ampliando il concetto da astensione dalla violenza a "rispetto di ogni uomo", vede la sua base nel cosiddetto "undicesimo comandamento", spesso espresso nella formula «Ama il prossimo tuo come te stesso», che sancisce per i cristiani il "nuovo patto", "Nuovo Testamento", tra Dio e gli uomini tutti; concetti simili si ritrovano nell'atarassia stoica e parallelamente negli scritti induisti dell'Upanishad, fedelmente ripresi dalla filosofia di Schopenhauer. Lo stesso primo principio della morale di Immanuel Kant prevede che un comportamento sia corretto se assumibile simultaneamente da ogni uomo, e questo non implica altro che ciascuno ha il dovere di comportarsi con il prossimo così come con se stesso; tuttavia, giacché uno Stato non può che essere composto da e nell'interesse di uomini, si potrebbe arrivare ad affermare che il rispetto per ogni uomo porti necessariamente al rispetto dello Stato e quindi delle sue leggi.
Dunque, accettando la disobbedienza civile solo nel suo limite costruttivo, assieme a poche altre rinunce, si potrebbe affermare che perseguibili per ogni uomo sono i doveri del rispetto della legge, dell'uomo e dello Stato, sia che questi siano in realtà la medesima cosa, sia che non lo siano.
Ad ogni modo queste norme verranno certamente seguite, o almeno approvate («Video meliora proboque... » diceva un grande poeta latino) fintantoché non se ne troveranno altre inequivocabilmente più giuste e dunque egualitarie nei confronti di ogni singolo uomo e dello Stato tutto.
Luca Flora V D Liceo Classico 'Galileo' Firenze
Riflessioni intorno a David Hume
Riflessioni intorno a David Hume
Hume si dimostrò un filosofo eccezionalmente originale e innovativo sin dal principio della sua riflessione filosofica. Pur abbracciando anch’egli il filone dell’empirismo inglese così come Locke, Hume amplia il proprio campo di ricerca non più al solo intelletto ma a tutta la natura umana, ritenendo che essa faccia riferimento a tutte le altre scienze.
L’empirismo, con Hume, raggiunge il suo punto più estremo. Ogni conoscenza umana viene ridotta a ciò che Hume chiama impressione, esperienza sensoriale che tramite la memoria prima e l’immaginazione poi va a costruire la base delle idee semplici e complesse. In questo modo Hume elimina il problema della dimostrazione oggettiva della realtà, in quanto impossibile da conoscere per l’uomo, la cui conoscenza si basa esclusivamente sull’esperienza. A questa conclusione già era arrivato Locke che si era però mantenuto saldo a un nucleo di principi la cui esistenza era, a suo parere, dimostrabile: l’io, il mondo esterno e Dio. Hume invece si fa portavoce di un empirismo radicale che non accetta l’esistenza certa di alcuna realtà. Estremamente innovativa è dunque la critica al principio di causalità, ricondotto anch’esso alla sola esperienza umana, prodotto dal ripetersi di un’esperienza che da abitudine si consolida in credenza. La critica della sostanza viene applicata da Hume anche alla nozione di “io”. Ciò che tendiamo a chiamare “io” per Hume altro non è che un insieme di idee, un flusso continuo di percezioni che lo compongono e lo variano continuamente. L’”io” non può essere perciò considerato come fondamento dell’identità personale, né come qualcosa la cui esistenza è oggettiva.
Irene Grazi IV A Liceo Classico ‘Galileo’ Firenze
A mio parere gli aspetti più rivoluzionari del pensiero di David Hume si sintetizzano nella critica al principio di causalità e nella critica della nozione dell’“io”. Hume nel suo metodo di ricerca induttivo ha condotto una decisa confutazione di un principio delle filosofia e della scienza comunemente accettato: cioè quello che sussista un legame di causa ed effetto tra due fatti. Se da una parte Aristotele affermava che la conoscenza è la conoscenza delle cause, Hume è deciso a demolire questo dogma. Secondo il filosofo scozzese il legame causa-effetto non è altro che un criterio, un sistema interno all’intelletto umano, che associa, dopo aver assistito ad una ripetizione di questi, un avvenimento ad un altro; ma l’esperienza non può riferirsi al futuro su cui non possiamo pronunciarci con certezza, quindi non ci è possibile in alcun modo affermare “se accade A, la causa sarà B”. Hume d’altra parte riconosce l’utilità pratica di tale “credenza” nella vita comune; essa però, in quanto tale, non può essere considerata specchio autentico della realtà.
I contenuti della critica al principio di causalità li ritroviamo in parte nella critica al concetto e alla nozione di “io”. Ancora Hume comincia un percorso di autoanalisi critica ed empirica giungendo anche questa volta ad affermazioni sconvolgenti: noi non esistiamo al di là della nostra percezione, l’esperienza non permette all’uomo di conoscersi al di fuori di se stesso e delle proprie percezioni: infatti per Hume non possiamo affermare con certezza alcunché che si estende oltre l’esperienza.
Nella sua radicalizzazione empirista Hume rispolvera la filosofia a lui precedente. Fin da giovane David Hume ha infatti avvertito che “la filosofia morale trasmessaci dagli antichi presentava lo stesso inconveniente della loro filosofia naturale, quello di essere interamente ipotetica e di dipendere più dall’invenzione che dall’esperienza” (Lettera a J. Arbuthnot, marzo-aprile 1734). Egli percepisce infatti come anche le più solide teorie e dottrine, tanto filosofiche quanto scientifiche, spesso siano frutto, piuttosto che di un’attenta e sincera indagine della realtà, di uno sforzo di immaginazione e creatività umana (dal quale sono risultati tutti quei “sistemi di credenze” universalmente riconosciuti come verità assolute). Erede dell’empirismo dell’inglese John Locke, Hume prende posizioni decisamente più radicali rispetto alla realtà e alla conoscibilità di questa: per il filosofo scozzese è intrinsecamente impossibile all’uomo affermare alcunché sulla realtà contingente con assoluta certezza , figurarsi poi spingersi oltre i confini della “fisica” (intesa come natura) e inoltrarsi nei campi della metafisica.
Hume sembrerebbe essere erede del pensiero filosofico di Pirrone di Elide e degli scettici della Nuova Accademia che professavano l’ epoche, la sospensione del giudizio, che arrivava agli estremi della afasia. Tuttavia, a mio parere, il percorso compiuto da Hume è decisamente differente: egli rifiuta infatti il comportamento che invece derivava dal pirronismo, cioè l’imperturbabilità davanti agli avvenimenti dell’esistenza quotidiana, riuscendo a vedere nella sfera pratica un’effettiva e incontestabile utilità delle credenze umane.
Benedetta Donvito IV A Liceo Classico ‘Galileo’ Firenze
Quale sia il reale rapporto naturale tra uomo e società è una questione filosofica quanto mai ostica e antica, già presente nel pensiero di Hobbes e sviluppata, forse in termini più moderni, anche da Hume. La teoria dell’”homo homini lupus” fino a che punto è da ritenersi fondata e plausibile?
L’uomo è davvero portato istintivamente al conflitto con i suoi simili? Seguendo questa teoria, Hobbes ipotizza che la società sia un espediente artificiale ordito dall’uomo per porre un freno alle continue lotte intestine e fratricide, per trovare un comune accordo. La società nasce dunque con un contratto, il quale spoglia ogni individuo dei suoi diritti naturali, che lo portavano incessantemente a voler prevaricare sui suoi simili; ovviamente la formulazione di tale teoria presuppone un pessimismo nei confronti dell’umanità.
Attenendoci invece ai fatti e alla storia e presupponendo la similarità della natura umana, seguendo cioè un metodo empirico quale quello di Hume, si arriva ad una tesi totalmente opposta: l’uomo è un animale sociale. Esso è animato da un forte sentimento di condivisione emotiva: la simpatia; a partire da essa, l’uomo tende per sua natura a cercare altri simili che come lui provino dinanzi a situazioni analoghe, analoghi sentimenti. In pratica Hume si rifà all’antico concetto già espresso da Publio Terenzio Afro, ossia “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, secondo cui niente di ciò che è umano è estraneo all’uomo stesso. Oltre alla simpatia, altra peculiarità congenita nell’uomo è quindi l’empatia, ossia la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui. In quanto esseri simpatici ed empatici, gli uomini per loro stessa natura ricercano la comunità, da intendersi come una collettività di individui affini.
La realtà dei fatti porta a dire che l’uomo è un animale e, come tale, dominato dalle passioni. Non si può dimenticare questa componente in favore del razionalismo, perché nell’uomo convivono entrambe.
Considerando l’uomo nella sua interezza, non si può dimenticare la sua parte ferina e irrazionale: le passioni; esse esistono solo in funzione di altri individui simili, e non possono essere soffocate o represse in una vita solitaria e insoddisfacente. Perché senza un confronto, senza la consapevolezza di potersi trovare davanti un altro uomo in grado di condividere le proprie sofferenze e le proprie gioie, l’uomo non può vivere.
Come insegna il celeberrimo film “Into the Wild”, una vita eremitica non porta alcuna gioia, nessun profitto, perché “Happiness is real only when shared” (la felicità è reale solo se condivisa). Questo è il pilastro sociale dell’uomo, il suo grandissimo bisogno di vivere in un gruppo che possa condividere i suoi stessi sentimenti e quindi comprendere i suoi successi o insuccessi. Perché come una grande vittoria perde qualsiasi significato se non vi è qualcuno a cui confidarla e con cui gioirne, così anche gli insuccessi non sono poi tanto drammatici.
Luca Pacini IV A Liceo Classico ‘Galileo’ Firenze
Doveri e diritti
Il rapporto biunivoco e la stretta interdipendenza tra diritto e dovere furono variamente interpretati e sono diventati oggetti di studio filosofico, ma mai in ogni caso smentiti, se si escludono le esperienze dei regimi totalitari e delle forme di governo che subirono un’involuzione in senso autoritario, nella quale tra diritto e dovere si instaurò un rapporto di esclusione reciproca.
Hannah Arendt tuttavia, nell’ambito della propria riflessione politica, non esclude che quest’ultime esperienze abbiano stimolato la coscienza dei propri diritti. Il concetto che la Arendt intende proporre è connesso con le idee dell’umana libertà e spontaneità che devono disporre di uno spazio in cui esercitarsi. Arendt individua nella politica lo spazio nel quale l’uomo consegue i propri diritti ma nel quale realizza e appaga sé stesso. La politica pertanto si configura come spazio nel quale il singolo realizza sé stesso. La Arendt ha ricercato le origini di una partecipazione alla vita comunitaria, alla politica, intesa come vita appagata e libera condivisa con altri. La disponibilità del diritto implica pertanto conseguentemente l’esercizio del dovere al quale l’uomo si adegua, appagando nello stesso tempo sé stesso.
Ricostruendo il percorso e le tappe che condussero alla consapevolezza del diritto e conseguentemente del dovere bisogna considerare Giuseppe Mazzini, che vi ricopre un ruolo fondamentale. In quest’ultimo il dovere assume una connotazione fortemente religiosa. La concezione mazziniana del dovere assume un contenuto edonistico e somiglia molto alla beatitudine che ogni religione postula all’interno della propria dottrina. Gli estremi appagamenti, la felicità che gli uomini attingono, a cui gli uomini partecipano anche sulla terra non possono scaturire che dalla conoscenza e dall’adempimento dei doveri. Il reclamo e persino la conquista dei diritti non migliorano neanche materialmente la condizione umana. Tutte le scuole rivoluzionarie predicarono all’uomo che egli è nato per la felicità che ha diritto di ricercarla con tutti i mezzi; Mazzini presuppone tuttavia l’adempimento del dovere: “ogni vostro diritto non può essere frutto che d’un dovere compito”. La priorità che è stata accordata al diritto, avverte Mazzini, conduce inevitabilmente ad un trito atteggiamento egoistico. Ciascun uomo che disponga del diritto si preoccupa infatti di conseguire la propria felicità senza alcun riguardo per l’altro.
Mazzini prelude ad un’etica di responsabilità nei confronti degli altri che sarà recuperata dal pensiero filosofico successivo.
Schopenhauer definisce infatti la propria un’etica di responsabilità nei confronti di sé e degli altri, che prevede un atteggiamento di pietas. Schopenhauer ritiene che l’atteggiamento etico non dipenda da un imperativo categorico formulato dalla ragione, ma piuttosto da un’esperienza, da un sentimento di pietà attraverso il quale l’individuo assume su di sé la sofferenza altrui.
La società che pertanto, nonostante il conseguimento dei diritti, sarà capace di debellare il morbo dell’egoismo e realizzare una partecipazione attiva alla vita comunitaria concretizzerà la previsione utopistica del socialismo di Owen.
Giulia Napolitano 5 B Liceo Classico ‘Galileo’ Firenze
Identità
Si ritiene comunemente che ognuno di noi abbia un'identità, cioè abbia qualità tali da distinguersi da tutte le altre entità, di qualunque genere siano, abbia cioè caratteri assolutamente peculiari. L'uomo del XXI secolo è ormai abituato a possedere una carta d'identità in cui la caratterizzazione dell'individuo viene operata tramite dati detti generalità (nome, cognome, data e luogo di nascita), professione, tratti somatici e altro.
Anzitutto ci interroghiamo se esistenza e identità vadano assieme. Leibniz nel XVI secolo affermava di sì. Con il suo principio logico degli indiscernibili, il filosofo tedesco asseriva l'impossibilità della coesistenza di due enti che presentino in tutto e per tutto le medesime caratteristiche, e che dunque ogni ente abbia una propria identità (così diceva anche Tommaso d'Aquino a proposito delle entità angeliche, ognuna delle quale costituirebbe una specie irripetibile). La sua opinione è sicuramente influenzata dagli studi matematici: in un sistema di equazioni, nel momento in cui si impone un'uguaglianza fra due termini in una delle equazioni, il primo e il secondo membro risultano completamente interscambiabili nelle altre (metodo di sostituzione). Inoltre, due figure geometriche sono uguali se la prima può essere perfettamente sovrapposta alla seconda- diventando cioè una figura unica.
Tuttavia esistono miliardi di miliardi di atomi di ferro, è scientificamente provato che presentino le stesse caratteristiche in tutto, e dunque sono la medesima realtà; nondimeno, numericamente rimangono miliardi di miliardi ognuno nella propria singolarità. Nonostante funzioni a livello logico-matematico, il principio degli indiscernibili di Leibniz si rivela dunque non valido nella realtà? Se fra i predicati di un ente, o caratteristiche, includiamo anche la posizione spaziale in un determinato tempo, saremmo indotti a dire di no: ogni atomo di ferro in questo istante occupa uno spazio differente, presenta quindi una caratteristica che lo rende peculiare e gli conferisce identità.
Ma torniamo all'essere umano per il quale, nonostante sia un aggregato di atomi, il discorso si rivela più complesso. Sono veramente i dati inseriti nella carta d'identità i caratteri che rendono un individuo irripetibile? Potremmo facilmente ammettere la possibilità che nello stesso giorno, nello stesso luogo sia nata una persona a cui sia stato dato il mio stesso nome; dunque le generalità non costituiscono l'elemento veramente caratteristico di un individuo (anche per il solo fatto che essi non siano altro in realtà che numeri e parole che designano tempi e spazi esterni al soggetto).
Possono essere i tratti somatici ciò che conferisce a ciascuno una propria identità? Effettivamente sì, persino i gemelli monozigoti presentano differenze, sin dalla nascita (come le impronte digitali) oppure maturate durante il corso della vita.
E proprio la nostra storia, il nostro percorso in questo mondo, ma anche le nostre emozioni, i nostri desideri e i nostri pensieri costituiscono altri fattori che contraddistinguono anche i gemelli all'apparenza più simili. Nessuno può infatti condividere una vita completamente identica con un altro individuo, e potremmo addurre molteplici argomentazioni a sostegno (prime fra tutte le differenze fisiche, e il fatto che non si possa occupare la stesso spazio nel medesimo tempo).
Tuttavia, le ultime scoperte cosmologiche, sebbene non si abbia la certezza scientifica, sembrano condurre sempre più ad affermare l'esistenza di universi paralleli, in un numero potenzialmente infinito e di diversi tipologie. La moderna teoria delle stringhe, nella quale si tenta la conciliazione fra meccanica quantistica e la relatività di Einstein e in cui ripone fiducia una cospicua parte dei maggiori fisici a livello mondiale, prevede ad esempio l'esistenza di un numero non precisato di universi nel nostro stesso spazio-tempo. Questa è soltanto uno dei diversi generi di universi paralleli che gli scienziati ritengono possibili, generi che non si escludono necessariamente a vicenda ma possono coesistere. L'esistenza di universi paralleli porterebbe non solo a riconoscere l'esistenza di leggi fisiche differenti da quelle del nostro universo, ma anche altre potenzialmente infinite copie di noi e di tutto il resto. In questo numero, nella grande maggioranza dei casi le nostre vite sarebbero, anche a livello infinitesimale, differenti, ma potrebbe accadere che si ripresentino assolutamente uguali. Se lanciamo un dado infinite volte, infatti, qualsiasi combinazione si ripresenta infinite volte. Leibniz si dimostra ancora una volta esser stato un acutissimo pensatore, avendo individuato nella sua Teodicea la possibilità di mondi paralleli nel complesso dei quali si realizza ogni possibilità logica, che non violi cioè le leggi fisiche. Ciononostante, nel caso tutto ciò venisse comprovato, esiste una grande probabilità che questo effettivamente non rappresenti il migliore dei mondi possibili.
Se la scienza un giorno arriverà a confermare tali teorie, l'umanità intera affronterà la più grande rivoluzione della storia, e la filosofia dovrà cimentarsi nuovamente in tematiche quali anche il concetto di identità, e a quel punto, se possa esso sussistere ancora o meno.
Manuel Lolli IV A Liceo Classico 'Galileo' Firenze
Cittadinanza
A partire dallo sviluppo del pensiero politico di Locke, filosofo inglese vissuto nel XVII secolo, è nata, sulla scia della dottrina filosofica giusnaturalistica, la concezione moderna di cittadino. Le formulazioni politiche liberaliste di Locke andarono a costituire le basi, prima che degli ideali della Rivoluzione francese, di quelli della Rivoluzione inglese antimonarchica che portò, tra le altre cose, all’emanazione del Bill of rights (1689), una dichiarazione dei diritti precedente di un secolo a quella francese (la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789). Si può certamente affermare che con Locke avviene il passaggio dalla concezione hobbesiana dell’homo homini lupus a quella di un uomo il cui stato di natura non è ancora politico ma è già sociale, contraddistinto dalla ragione, capace in un secondo momento di giungere spontaneamente e volontariamente a un patto con gli altri suoi simili che ne regoli i rapporti. Che l’uomo sia un animale politico, la cui stessa natura lo spinge ad associarsi in comunità già lo affermava Aristotele nel IV secolo a.C. . Locke non fa che proseguire su questa linea di pensiero. Per il filosofo inglese l’uomo possiede per la sua stessa natura la capacità di instaurare un rapporto con l’altro, di accordarsi e di giungere a compromessi sulla base dell’interesse comune; in questo modo Locke definisce quelli che effettivamente sono i valori principali che caratterizzano tutt’ora, a distanza di secoli, il buon cittadino. Dalla concezione verticale del rapporto Stato – uomo presente in Hobbes per cui il cittadino è direttamente soggetto allo Stato, al quale cede tutte le proprie libertà, con Locke si passa a una concezione anche orizzontale che lega gli uomini tra di loro e mette in evidenza innanzitutto l’importanza del loro rapporto reciproco, ritenuto un rapporto tra pari. L’appartenenza stessa a una comunità diventa perciò fare politica e assumono un rilievo fondamentale tutti i valori che legano gli uomini tra di loro in vista dell’interesse comune che finisce inevitabilmente per coincidere con quello personale.
Irene Grazi V A Liceo Classico ‘Galileo’ Firenze